Gli inaspettati percorsi del Jazz
Casa del Jazz, 9 luglio, ore 21
Maria Pia De Vito, voce
Huw Warren, pianoforte
Gabriele Mirabassi, clarino
Maria Pia De Vito, voce
Huw Warren, pianoforte
Gabriele Mirabassi, clarino
Articolo di Daniela Floris
Foto di repertorio di Daniela Crevena
I percorsi del Jazz ma più in
generale della musica sono sempre inaspettati.
E solo assistendo al concerto del duo di Maria Pia De Vito e Hugh Warren al
pianoforte potrete capire cosa possa legare un pianista jazz gallese ed una
cantante jazz napoletanissima. Eppure
(potenza di internet) per un caso la prima ha ascoltato alcuni lavori del
secondo ed è rimasta affascinata dalla quella particolare musicalità a lei così
affine. Internet accorcia le distanze e
in pochissimo tempo (già da alcuni anni) i due si sono trovati a collaborare
dando vita anche a bellissimi progetti discografici.
Se a loro si aggiunge un poeta del clarino
(Gabriele Mirabassi) allora, come è accaduto alla Casa del Jazz, si viaggerà a
mezz’ aria tra le note di tre virtuosi che hanno piegato il virtuosismo a forma
espressiva intensa che niente ha a che vedere con esibizioni “da circo”.
Dunque Maria Pia De Vito – che è fenomenale nello scat simulerà un intero set di percussioni, Huw Warren la asseconderà percuotendo le corde del pianoforte a coda, Gabriele Mirabassi porterà all’ estremo la voce del suo clarino ma… il loro reciproco ascolto renderà tutto questo non una sterile gara tra titani, ma un insieme armonico di migliaia di battiti e note, intellegibili una ad una ed anche nel loro reciproco dialogare.
La voce di Maria Pia De Vito (che è versatile in maniera – positivamente – impressionante) diventerà più napoletana che mai, e dolce, e commovente cantando la piccola poesia di Totò Si fusse n’ aucello: un piccolo capolavoro per il testo in sé, per la musica che Maria Pia le ha regalato (che fa sognare dolci momenti di tenerezza davanti ad una finestra), per i cinguettii così musicali che nascono magicamente dai fraseggi del clarino di Mirabassi – onomatopeico ma non didascalico, per gli accordi così morbidi e mediterranei di Warren.
Napoli torna in altri brani, mai uguali l’ uno all’ altro, risultato di un’ impellenza musicale mai sopita ma assecondata quasi con amorevole cura.
Quando si torna poi al Jazz propriamente detto (ad esempio con G continuo di Rita Marcotulli), il procedere all’ unisono dei tre musicisti è un incredibile inanellarsi di note legate da uno swing irresistibile, precise come ticchettii di un orologio svizzero ma senza la petulanza dell’ incedere sempre uguale a se stesso dell’ orologio, perché tra una nota e l’ altra, anche durante velocità frenetiche, ci sono sfumature di timbro, di dinamiche, di varianti che creano quella tensione espressiva che è (in una sola parola) musica.
Energia, precisione, bravura, fantasia - nel brano napoletano come in quello di Jobim ma anche nell’ interpretazione della “follia buona” (come la definisce la De Vito) di Hermeto Pascoal - sempre è trapelata la gioia di fare musica in trio, anzi di essere lì in quella precisa formazione: ecco come può diventare il Jazz.
Dunque Maria Pia De Vito – che è fenomenale nello scat simulerà un intero set di percussioni, Huw Warren la asseconderà percuotendo le corde del pianoforte a coda, Gabriele Mirabassi porterà all’ estremo la voce del suo clarino ma… il loro reciproco ascolto renderà tutto questo non una sterile gara tra titani, ma un insieme armonico di migliaia di battiti e note, intellegibili una ad una ed anche nel loro reciproco dialogare.
La voce di Maria Pia De Vito (che è versatile in maniera – positivamente – impressionante) diventerà più napoletana che mai, e dolce, e commovente cantando la piccola poesia di Totò Si fusse n’ aucello: un piccolo capolavoro per il testo in sé, per la musica che Maria Pia le ha regalato (che fa sognare dolci momenti di tenerezza davanti ad una finestra), per i cinguettii così musicali che nascono magicamente dai fraseggi del clarino di Mirabassi – onomatopeico ma non didascalico, per gli accordi così morbidi e mediterranei di Warren.
Napoli torna in altri brani, mai uguali l’ uno all’ altro, risultato di un’ impellenza musicale mai sopita ma assecondata quasi con amorevole cura.
Quando si torna poi al Jazz propriamente detto (ad esempio con G continuo di Rita Marcotulli), il procedere all’ unisono dei tre musicisti è un incredibile inanellarsi di note legate da uno swing irresistibile, precise come ticchettii di un orologio svizzero ma senza la petulanza dell’ incedere sempre uguale a se stesso dell’ orologio, perché tra una nota e l’ altra, anche durante velocità frenetiche, ci sono sfumature di timbro, di dinamiche, di varianti che creano quella tensione espressiva che è (in una sola parola) musica.
Energia, precisione, bravura, fantasia - nel brano napoletano come in quello di Jobim ma anche nell’ interpretazione della “follia buona” (come la definisce la De Vito) di Hermeto Pascoal - sempre è trapelata la gioia di fare musica in trio, anzi di essere lì in quella precisa formazione: ecco come può diventare il Jazz.
Bellissimo! Proprio così!
RispondiEliminaComplimenti anche alla capacità espressiva della scrittrice :-)
Claudia Rossi
Claudia carissima, la scrittrice (cioè io) ringrazia di cuore! Grazie delle tue parole
RispondiEliminaDaniflo