Giovanna, come è avvenuto il tuo primo contatto con il jazz?
Mi commuove, ricordarlo… perché è stato con StefanoCerri. Un po’ di tempo prima, un’amica che voleva aprire una scuola mi aveva fatto conoscere alcuni musicisti. La scuola poi era stata avviata, era stato coinvolto Stefano. Grazie a lui ho cominciato ad andare ai concerti. E’ stato come entrare dal nulla in una porta un po’ garantita, una porta principale.
Un contatto quasi casuale, quindi. .. tu prima di cosa ti occupavi?
Facevo l’architetto di interni: ho avuto per diversi anni una galleria, più che di arte, di design, scultura, mi occupavo della materia nello spazio. Era la cosa che mi interessava… ed è un po’ un approccio che ho mantenuto anche nei confronti della musica, a dir la verità. Poi ho avuto la fortuna di incontrare un assessore illuminato, che era anche però un musicista. Lui ha pensato che questa mia sensibilità nei confronti dell’arte, unita a quella che lui riteneva una dote di pubbliche relazioni, potesse essere applicata alla musica. Fu così che cominciai ad organizzare delle piccole cose nel suo comune.
Ora ti occupi di management.
Adesso soltanto di management, e soltanto di Fabrizio Bosso. Quando ho iniziato invece ero dapprima organizzatore, poi direttore artistico. Ad un certo punto mi chiese di lavorare con lui in forma manageriale un pianista greco, VassilisTsabropoulos , che a suo tempo aveva realizzato un disco in trio con John Marshall e Arild Andersen. Dirigevo il Brianza Open Jazz Festival : per lanciare il festival, durante il periodo della conferenza stampa pensammo di organizzare una serata concerto in cui si presentassero degli inediti. Interpellando le varie case entrai in contatto con la ECM, che per un po’ ebbe la serata in esclusiva. Mi facevano ascoltare dei dischi e io dovevo scegliere: scelsi quel trio, e iniziò la mia carriera di manager.
Che poi è diventata la cosa principale…
Si, anche se ammetto che mi diverte e mi piace la parte organizzativa, è una cosa che sento connaturata. In effetti da quando Fabrizio Bosso ha iniziato a realizzare il festival al suo paese d’origine, a Piossasco, mi piace moltissimo affiancarlo e lavorare alla sua preparazione.
Quali sono le difficoltà che un jazz manager incontra nel suo lavoro?
Le difficoltà… In generale è un mestiere che si impara molto sul campo… non so quanto ci siano delle cose che ti preparano a fare il manager musicale. Il manager aziendale sicuramente si…non è una cosa che si impara tanto facilmente…ma un manager musicale … Beh, la prima cosa che mi viene in mente è che in Italia ci sono difficoltà che nel resto del mondo non sono le stesse. Da noi la figura del jazz manager non è riconosciuta. Finiamo per essere considerati come una bocca in più da sfamare, sostanzialmente…e questa è la difficoltà più pratica che noi abbiamo. Poi secondo me c’è una grossa differenza tra il manager e l’agente. L’agente si lega ad un discorso più commerciale mentre il manager si interessa dell’ artista e con lui crea un rapporto per il quale entrambi valutano le cose insieme.
Quindi c’è anche una parte creativa…
Si, indubbiamente. Il manager si occupa di tutto quello che riguarda l’artista: dalle scelte diciamo prettamente musicali, alla scelta della modalità di comunicazione, a ciò che è conveniente o non conveniente fare …è un rapporto sostanzialmente totalizzante e che quindi non con tutti gli artisti può funzionare. Io dico sempre che non è detto che un grande manager e un grande artista insieme funzionino. Si deve creare una alchimia particolare e questo non può accadere con tutti: come nella vita. E’ una cosa che non si impara, si vive. E’ un’esperienza che poi diventa comune, un vissuto proprio. C’è una forma di appartenenza.
Giovanna, tu hai fondato una cooperativa, US cooperativa per l' arte. Quali sono state le difficoltà che hai incontrato e perché hai fatto questa scelta?
La cooperativa asce sull’onda delle esperienze precedenti. E’ stata una scelta che non è venuta dal nulla ma dopo anni, prima una associazione, poi una srl... L’ idea è nata perché il manager è percepito appunto sempre molto distante dall’artista. Per di più in Italia gli organizzatori di festival o kermesse musicali spesso non sono professionisti, se non in rari casi… e quindi cosa accade? La maggior parte delle volte trovano la loro gratificazione proprio nel rapporto con l’artista. Tu, manager, gli stai un po’ sulle scatole, ti frapponi, stai in mezzo… non c’è mala fede in questo, è proprio un atteggiamento diffuso e forse si può anche capire. Creare una cooperativa di artisti, e non una cooperativa di servizi, per me significava far si che questa distanza fosse annullata: non sei l’agenzia che gestisce il lavoro dell’artista, ma sei “una cosa” dell’artista. Anzi “sei” l’ artista. All’inizio è stata molto ben recepita poi però è stato abbastanza difficile portarla avanti… quindi ora siamo in una fase “work in progress”.
Quali artisti partecipano alla cooperativa?
Ci sono Fabrizio Bosso, Antonello Salis, Luca Mannutza, Egidio Marchitelli, Antonio Jasevoli. Questo è il nucleo. Stiamo cercando di capire se vale la pena allargarla creando più servizio, perché bisogna far tornare i conti, oppure invece mantenerla in questa forma di gruppo di gente affiatata , che lavora insieme da tanto tempo.
Come si mantiene l’armonia tra i vari artisti che si decide di promuovere…tra di loro…si riesce a mantenere l’armonia?
Io ho fatto la scelta di non farlo…di occuparmi solo di uno. Anche se non era per una mancanza di armonia tra di loro, ma casomai dentro di me: inevitabilmente, e tante volte ancora, per me è difficile rinunciare a qualcosa, perché magari mi innamoro…musicalmente. Tra di loro andavano tutti d’accordo e c’era tanta stima, loro si sostengono tanto a vicenda, molto. Quindi questo problema non l’ho mai avuto. Dentro di me si perché mi rendevo conto che facevo delle promesse che poi non ero in grado di mantenere. E quindi ho smesso di farle.
Come si piazza un concerto e un artista? Quali sono le fasi salienti di una trattativa? Quali le difficoltà? Ci vuole un guizzo di fantasia o ci vuole una strategia ben mirata?
Guarda, ti dico una cosa buffa…ho un amico che fa l’agente immobiliare al quale tanto tempo fa affidai la vendita di una casa dove abitavo… siamo molto amici però lui mi disse “quando io faccio le trattative, tu vai a farti un giro perché non voglio che tu mi senta”. Perché dico delle cose che non stanno né in cielo né in terra, faccio il piazzista e siccome tu mi conosci in un altro modo…” è un po’ la stessa cosa…nel senso che c’è una base organizzata sulla quale ti muovi, per cui sai che in un certo periodo ci sono certe cose che accadono, per cui sai chi contattare e così via. Poi però devi anche cercare di capire cosa vuole chi organizza quella rassegna, o quel festival o quel concerto. Dunque ti trovi a un certo punto a proporgli una cosa completamente diversa da quella che pensavi , o a inventarla sul momento, o scoprire esigenze di cui lui o tu non eravate consapevoli.
Quindi non è una cosa fredda e meccanica…
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Mai ! In realtà dopo tanti anni ci sono tutta una serie di persone che mi chiamano dicendomi loro quello che desiderano e altre invece sono… da conquistare.
E’ bella questa cosa perché non ti annoi mai!
No, questo proprio non credo mi possa capitare.
No, questo proprio non credo mi possa capitare.
Dove finisce il tuo lavoro ? Inizia dalla trattativa e finisce…dove?
Non finisce mai… se non quando andiamo a dormire dopo il concerto. Il concerto è la parte nella quale poi tu rinnovi la promessa a te stessa e la motivazione per cui hai deciso di fare questo mestiere. Quando gli artisti sono sul palco e fanno quello che fanno, come lo fa Fabrizio, ad esempio, non hai più dubbi. Accade qualcosa di magico, e questa è la cosa che spero di non perdere mai. Non credo, per il carattere che ho… mi emoziono ancora infinitamente…e quando stiamo producendo o sperimentando cose nuove, io non mi appoggio allo schienale della sedia o non riesco neanche a stare seduta, perché è proprio una partecipazione totalizzante.
Dunque la parte che deleghi del tuo lavoro, è minima…
Delego la parte organizzativa della produzione e la delego ad una persona che ho scelto: ci ho messo tantissimo a una persona che comprendesse profondamente il mio atteggiamento nei confronti di questa parte del mio lavoro. E’ Antonio Serra e ora che l’ ho trovato dico sempre che non lo posso definire “il mio braccio destro” ma “il mio ventricolo”. Adesso prenderà in mano anche molto di più : sarà un alter ego, nel vero senso della parola. Ha perfettamente inteso, perché lo vive lui stesso, questo atteggiamento nei confronti di questo lavoro. Ci mette amore, passione e l’abnegazione. In più rispetto a me, ha la precisione che mi manca. Direi che è perfetto. E poi ha un modo di rapportarsi agli altri discreto, educato.
Ad un certo punto decidi che vale la pena di cercare di produrre un disco, di cercare una casa discografica per i tuoi artisti. Cosa ti fa scattare l’idea?
Guarda, io non sono colta dal punto di vista musicale, ma alla fine un po’ di cose le ho imparate. Vengo dal rock , il jazz è stato un incontro che ho fatto tardi … e come dire… ho cominciato a conoscerlo andando a ritroso. Sono partita in modo non canonico, amando molto il jazz europeo e quindi ci ho messo un bel po’ ad amare il jazz americano… sono un po’una outsider. Quello che per me fa tanto, è la pancia. Se mi cala l’attenzione c’è qualcosa che non va. Magari non sono in grado di dirti cosa, perché non ho la competenza… però…
Però hai un polso di quel che succede..
Si, è così, a pancia, ad istinto.
Com’è una tua giornata tipo…la giornata tipo del jazz manager?
Dipende dalla giornata: io lavoro in casa o viaggio. Non ho mai pensato di aprire un ufficio. Anche le persone che lavorano con me lo fanno da casa propria. Diciamo che per un certo periodo eravamo tutti sparpagliati. Adesso invece io sto a Milano, Antonio sta a Roma. Mi alzo non prestissimo perché lavoro molto la notte, diciamo verso le 8.30 – 9. Sostanzialmente, con la tazza della colazione mi metto davanti al computer. Posso stare in tenuta da casa anche fino alle sei del pomeriggio. A volte faccio il giro unico e non me ne rendo neanche conto. La frenesia di telefono, computer, email finisce intorno alle quattro del pomeriggio, dopodiché si comincia a lavorare alla programmazione, al capire il come, alla parte più creativa. La notte è il momento in cui mi occupo dei progetti veri e propri o di quelle cose da scrivere un po’ particolari, un po’ diplomatiche, cose da risolvere, che non mancano mai.
E’ un lavoro che non finisce mai !
In realtà io non lo vivo tanto come un lavoro. E’ la mia vita, ciò che mi riempie l’esistenza. Se mi annoiassi cambierei lavoro … è questo il problema grave per me…
Che impatto ha avuto, secondo te, la crisi economica nel mondo del jazz?
Molto pesante… la cosa più grave è che ancora, in qualche modo, deve accadere il peggio, perché è già accaduto, in parte… manca un’altra faccia del peggio. Fino a qualche tempo fa, c’era tanta gente prendeva l’impegno, ci faceva lavorare, e poi il problema era riuscire a ricevere il denaro. Adesso non lo faranno più…Cè la legge degli enti pubblici che devono pagare a trenta giorni che è un’ottima cosa da un lato…ma sappiamo benissimo che, nella congiunzione col patto di stabilità, in realtà significa che un ente pubblico fino all’anno scorso fissava un festival anche se non aveva al momento in cassa i denari. Adesso non lo può più fare e dunque si ferma prima… Ho il timore che ancora ci debba arrivare la botta grossa.
Giovanna, cosa avviene all’estero? Ci sono differenze nel modo di lavorare e di affrontare rispetto a noi?
Un abisso. Intanto lì quella del manager e quella del musicista è una professionalità ben definita. e quindi viene vissuta come una risorsa economica del paese. E quindi questo determina che i festival sono organizzati in un certo modo, c’è un rispetto di base che qui spesso non c’è. Stefano Cerri diceva sempre “Mi chiedono cosa faccio per vivere, io rispondo che sono un musicista e loro ribattono “no, no, per vivere, per mangiare”. Questo è ancora molto vero. Qui in Italia può magari accadere che trovi il posto assolutamente sconosciuto dove ti trattano benissimo perché c’è il cuore. Ma molto più spesso la mentalità è quella che “tanto il musicista a suonare si diverte”…
Il che svaluta un po’ tutto, in effetti. Che percentuale di donne lavorano nel mondo del jazz, compreso le artiste?
Ultimamente un pochino di più, quando ho cominciato io eravamo poche, poche, poche. C’era la mitica Sandra Costantini, un’ antesignana… c’erano più donne che lavoravano nell’ambito musicale classico…
Nel Jazz non siamo in tante. Come anche per le artiste…adesso c’è una nuova leva molto interessante… ai tempi di Rita (Marcotulli) e Maria Pia (De Vito) , loro stesse hanno dovuto passare dall’estero per poi tornare qua ed essere qualcuno. In realtà più organizzatrici…come managment c’è Francesca Gregori . Poi c’è Eleonora Biscardi che ha cominciato non da moltissimo, che sta facendo delle cose interessanti e poi non mi viene in mente nessun altro… c’era Cristina Pagani tanti anni fa, che lavorava con Enzo de Rocco però poi hanno sciolto la società…
Sostanzialmente, sempre una percentuale infinitesimale… questo sicuramente.
Trovi che nel mondo del jazz le donne siano favorite?
Assolutamente no. Non siamo favorite da nessuna parte in questo paese e quindi… non c’è da stupirsi e non è perché nel jazz sono più cattivi degli altri… è proprio una cosa culturale che noi abbiamo e ce la teniamo. Il problema è che devi assumere un certo piglio per esistere. E alla fine ti dicono che sei "dura".
Adesso ti faccio quattro domande secche finali che presuppongono una risposta "istintiva".
Qual è la cosa più difficile del tuo lavoro?
Qual è la cosa più difficile del tuo lavoro?
Farmi rispettare
La più semplice?
Ha sempre a che fare con la musica…lasciarsi andare, vivere le emozioni.
La più spiacevole?
Fare sempre la parte del grillo parlante
La più piacevole?
Quella di entrare a contatto con la musica.
Diceva George Brassens che "Pour connaître une femme, il faut toute une vie"; è evidente che Giovanna Mascetti, pur essendo ancora giovane, non ha potuto avere tutte le vite necessarie per conoscere più donne e, soprattutto, varie altre sue colleghe. Pur con tutto il rispetto per Eleonora Biscardi, che è stata anche mia carissima studentessa, e per le altre eccellenti professioniste nominate, direi che da Daniela Morgia a Ludmilla Faccenda le donne che possono fregiarsi del dubbio titolo di "jazz manager" (riconosco che il solo termine "manager" già mi induce a pensare ad apocalittiche visioni di inerzia mentale) sono più di quelle che sono state citate nell'interessante intervista. A meno che la gentile Mascetti non la pensi come Goethe: "Dove viene meno l'interesse, viene meno anche la memoria". Gianni Morelenbaum Gualberto
RispondiEliminaSalve Gianni, e grazie per il suo commento. La risposta, se vorrà, la lasciamo a Giovanna Mascetti!
RispondiEliminaBuona giornata, D&D
Grazie Gianni di questo commento...non ho potuto rileggere l'intervista prima che fosse pubblicata e non mi sono resa conto di non aver nominato Daniela e Ludmilla. Ciò è accaduto solo perchè le vivo più come amiche e fanno parte del mio quotidiano. Chiedo loro scusa, ma sono certa che, conoscendomi molto bene, avranno compassione per la mia confusione mentale...
RispondiEliminaPrese dall' entusiasmo di pubblicare l' intervista lo abbiamo fatto senza prima reinoltrarla a Giovanna per rileggerla. Di questo ci scusiamo molto con lei! D&D
EliminaRiceviamo e volentieri pubblichiamo da parte di Dino BettiVanderNoot:
RispondiEliminaLe donne hanno sempre amato il jazz, forse in maniera
addirittura più rilassata degli uomini.
Se n'era accorto subito Duke Ellington, che aveva
deciso di fare il pianista perché aveva osservato che
la più bella ragazza della festa se ne stava regolarmente
appoggiata al pianoforte, in ammirazione di chi lo
suonava.
Un abbraccio.
Dino Betti VanderNoot
Non so se le donne amino il jazz e non vorrei che alla fine si tornasse a discutere se il bagno è di destra e la doccia è di sinistra... In effetti, ho conosciuto poche donne che amassero tale tipo di linguaggio, ma la cosa non mi ha mai stupito molto, le sensibilità possono essere molto diverse e varie e l'ambiente della musica in generale (ché quello accademico non è stato da meno, e per lungo tempo) non è mai stato particolarmente accogliente e comprensivo nei confronti dell'universo femminile, al contrario, forse, del cosiddetto "entertainment". Ciò detto, visto che ho lamentato la mancata citazione di altre protagoniste del nostrano "manageriato" jazzistico, e visto che ho "una certa età", cito anche Picchi Pignatelli (mi ricordo di averla conosciuta che avevo diciannove anni), Laura Weber, Jennifer Bettarini, Ornella Tromboni, Gabriella Casiraghi. E mi scuso con chi ho dimenticato. Gianni Morelenbaum Gualberto
RispondiEliminaE però tra amare e capire c'è differenza. "Le donne non capiscono il Jazz". Sarà così? Qui leggeremo testimonianze femminili senza forse voler dimostrare nulla. Per capire il Jazz bisogna amarlo? Per amarlo bisogna capirlo? Forse non cerchiamo una risposta. E' possibile anche che siano plausibili entrambe le possibilità. Si potranno trarre conclusioni o anche non trarne. Di certo sentiremo descrivere il Jazz da donne immerse nel Jazz non come spettatrici.
RispondiEliminaPicchi Pignatelli... l' ho sfiorata anche io, qui a Roma. La ricordo bene, e ricordo il suo sorriso ma non l' ho conosciuta così a fondo per poterla descrivere come meriterebbe. Grazie Gianni per questo intervento. Grazie Giovanna per la tua disponibilità.
Daniela Floris
Intervista veramente godibile, una spaccato interessante del "dietro le quinte". Sono sempre stato intrigato dalla visione e dalla sensibilità femminile verso la nostra musica e questa vostra rubrica è una opportunità interessante per me per capirne qualcosa in più. ;-)
RispondiEliminaRoberto
Caro Roberto, scusa il ritardo nella risposta! E grazie di queste tue parole. Abbiamo diverse interviste da fare e ne siamo contente. Anche perchè parleremo di Jazz, che è la nostra passione. La prossima intervistata anche ti piacerà! Work in Progress . A presto!
RispondiEliminaE brave D&D!!!!
RispondiEliminaMichele.