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martedì 18 novembre 2014

Jason Moran e Robert Glasper tra Milano e Roma!

Li abbiamo intercettati tra Milano e Roma: Dani Crevena li ha fotografati alla Rassegna del Teatro Manzoni "Aperitivo in concerto" a Milano. Dani Floris li ha ascoltati a Roma all' Auditorium Parco della Musica per il Roma Jazz Festival.
Questo è il report dunque di due eventi, perchè la musica si guarda e si ascolta!

Milano e Roma , 16 e 17 novembre

Jason Moran, pianoforte


Robert Glasper, pianoforte e pianoforte elettronico 







Jason Moran e Robert Glasper sono due veri e propri talenti del pianismo americano, molto diversi tra loro. Moran con una espressività sincera ma più strategica, compositiva, volutamente costruita attraverso diverse soluzioni sonore anche “altre” dal pianoforte, con una tendenza a giustapporre tra loro episodi  “chiusi” e creare raffinati e godibili  mosaici musicali; Glasper più torrenziale ma anche più intimista, più emotivamente narrativo, alla costante e percettibile ricerca del tocco giusto per esprimere un sentire che sembrerebbe dell’ immediato. 










Eppure queste differenze nel loro concerto a due pianoforti si traducono in una irresistibile complementarietà: non tanto due opposti che si attraggono, ma piuttosto due metà di una mela che tende a  ricostituirsi in un intero. Sarà forse perché entrambi hanno una benefica permeabilità al modo sonoro che li circonda, all’infuori del Jazz. Sarà probabilmente che entrambi sono tutt’altro che narcisisticamente chiusi in se stessi, o forse anche perché entrambi hanno una solida preparazione accademica ma anche un vero e proprio culto per i grandi del Jazz, come Thelonius Monk, o Herbie Hancock, e di molti altri grandi del pianoforte Jazz, a partire dai pionieri del pianoforte di Harlem degli anni '20.  





Fatto sta che durante questo concerto per due pianoforti per un’ ora e mezzo di musica non abbiamo ascoltato due pianoforti, ma un’ unica ondata di musica bilanciata, un pianoforte al quadrato, per essere più chiari, una serie quasi infinita di spunti che si inanellavano in un viaggio nel jazz di entrambi, incrociati e agganciati tra loro alla perfezione proprio in virtù delle loro differenze divenute reciproci appigli, giacché di certo due superfici lisce ed identiche tra loro non possono che scivolare via.  
E così anche i ruoli si sono scambiati di continuo: l’ uno accompagnava, l’ altro cantava; l’ uno costruiva lunghe frasi melodiche, l’ altro contrastava con accordi dissonanti. 







Ma oltre ai contrasti in contemporanea accadevano anche sapienti  stop con frasi spezzate in totale sintonia sonora, o graduali assottigliamenti del suono fino alla vera rarefazione, o l' inspessirsi fino al volume massimo dell' andamento percussivo, per accordi, che diveniva a tratti addirittura sontuoso. 
Quando l’ uno ha abbandonato il palco per lasciare solo l’ altro, nonostante le grandi differenze stilistiche la continuità “narrativa” sembrava non fermarsi mai.

Molta improvvisazione libera ma su temi fortemente vicini ad entrambi: Monk, Hancock, lo stride, ma anche la musica del rapper Scarface a dare ossigeno, freschezza, ad un repertorio che di “repertorio” ha solo il nome, poiché tutto è riletto in chiave nuova, fresca, originale. C’è la storia del Jazz in questo concerto, c’è il blues, ma si fatica a riconoscere i brani, per quanto sono metabolizzati e ricreati da questi due artisti entrambi dalla personalità prorompente. 






L' unico limite di tanta positività è probabilmente la forma in “suite”, fatta di lunghi episodi, e raccordi che introducono altri lunghi episodi, senza soluzione di continuità.   Ovvero i due hanno suonato (splendidamente, certo) quasi di continuo, molto, forse troppo lungamente, negando quelle interruzioni che provocano, in chi ascolta, una sorta di benefica “fame di musica”. In questo caso, pur risultando Glasper e Moran certamente ipnotici e coinvolgenti , in realtà per chi vi scrive è avvenuta anche una sorta di assuefazione al suono, con conseguente bisogno di forzarsi per apprezzare ogni sfumatura ed evitare di percepire il tutto come “monocorde”:  il che assolutamente non era.
Sono state preziose le poche parole, forse troppo poche,pronunciate da questi due artisti così riccamente ispirati. Perchè di sicuro questo bel concerto non è stato solo un flusso ininterrotto di improvvisazione amorfa, che prevederebbe una sorta di lasciarsi andare rituale: un appassionato timoniere in casi come questo è essenziale per rendere visibili le bellezze nascoste di un vero viaggio creativo nel Jazz. 








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